Qual è il nostro rapporto con il tempo?
Se qualcuno ci chiedesse di definire un brano musicale, probabilmente faremmo riferimento alla melodia che ne indica l’essenza, e non a un mero susseguirsi di note. Allo stesso modo, il tempo del mondo, che è alla base del senso comune e che si caratterizza come una successione di istanti uguali, esterni a noi, che scandiscono compleanni, scadenze, passaggi, è una forma di temporalità che poco ha a che fare con il tempo vissuto, ovvero quello interiore.
Come faceva intendere Heidegger, la temporalità è l’essenza stessa della vita umana. L’uomo infatti possiede (o meglio, è) una storia che costituisce il suo passato e che guida il suo presente verso quel “non ancora” proprio del futuro.
Ognuno di noi si muove nel mondo a partire dai propri spazi di esperienza e verso i propri orizzonti di attesa, i progetti. Viviamo nell’aspettativa, nella speranza, nel timore, nel desiderio, a volte nel senso di colpa, nel rimorso.
Questa forma di temporalità soggettiva, che noi stessi produciamo, fluisce come un divenire all’interno della trama della nostra vita. Tuttavia, proprio perché fondante l’individuo stesso, essa può subire modificazioni o fratture in condizioni di sofferenza psichica. È il caso, ad esempio, del vissuto depressivo, nel quale il passato si configura come una prigione che non prevede porte di uscita e il futuro come una possibilità esclusa alla luce di un trascorso invischiante e perduto. Così, Il tempo interiore rimane fermo e si desincronizza con gli orologi del mondo, che invece vanno avanti.
Nella pratica terapeutica, uno degli obiettivi è quello di aiutare il paziente a riappropriarsi delle proprie esperienze in modo identitario, aprire possibilità, ricostruire, insieme, la continuità del proprio tempo interiore. Per dirla in altri modi, aprire la porta della prigione e giocare nello spettacolo del presente mantenendo il centro di sè.